Al finire degli anni 70 il paesaggio della pittura e dell’arte contemporanea presentava volute voragini di vuoto, sconclusionate scritture pittoriche, atte a disegnare la desolazione e lo sconcerto di un mondo che si lacerava dietro domande che non avevano risposte.
Che fine aveva fatto l’arte, la pittura in particolare, aggredita dalla bellezza delle immagini fotografiche e dalla carica dei mille mezzi innovativi tecnologici? I grandi maestri della pittura contemporanea aprivano bocche di divorata ansietà, o si allungavano in sconnessi tratteggi dell’informale.
Rauschemberg poneva l’accento sulla dissociazione e così De Koonig.
Bacon mostrificava, specchio del reale, la faccia della verità. Nel mondo si era persa la speranza.Le guerre, le catastrofi, la paura del nucleare, incidevano la pelle delle tele cui si contrapponeva l’acida ironia di Warhol che nei multipli iniziava la teoria dei cloni tutti uguali, nella dissacrazione, nell’ironia, nella mancata speranza di un rinnovamento culturale.
Con l’arte concettuale la pittura lasciava posto agli oggetti che facevano il verso a poesia e visione.
Così si sono viste corde ciondolare e pneumatici e animali rossi e gialli ingrassare nei musei più belli del mondo, dal Moma di N.Y. al Beaubourg di Parigi, considerati luoghi sacri per l’arte contemporanea.
L’arte faceva il verso alle raffigurazioni perché, morto Dio, morto il Significante, era arrivata la torre di Babele e qualsiasi suono poteva essere scambiato per nota.
Lo sberleffo in scatola di Manzoni era una contestazione radicale della tradizione dell’arte: ma l’esigenza estetica non si sopprime con gli enunciati e le provocazioni.
Per Perotti, filosofo, poeta, alla fine degli anni 70 successe esattamente il contrario. Il bisogno di ridefinire un incipit, di dare colore a concetti che non fossero concettuali, ma basali, di dare forme che dessero colore al bisogno di sostanziare l’arte di “simbola” e “eidola, coerenti con la tradizione sia pittorica che filosofica, fu più grande.
I simboli sono il frutto dell’inconscio, come dice Carl Gustav Jung, e il primo vero autentico prodotto pittorico di Pdel mondo. Piccolo quadro, di minute dimensioni, ma grande esplosione di profonda intuizione, Perotti fu il dipinto “Welthanschaung”, visione del mondo, dove il bisogno dell’idea si sposa con la naturale declinazione verso l’ideale e dove alla necessità razionale e anche poetica, del “quia” segue quello del “quomodo”.
Da questo quadro Perotti parte per un’esplorazione quasi tridimensionale, in cui viene rappresentato il mondo democriteo, con i suoi quattro elementi, di cui é composta non solo terra, ma il cosmo. L’intuizione artistica qui si sposa con il bisogno razionale di dare ordine agli elementi sia del conscio che dell’inconscio.
ARIA FUOCO TERRA ACQUA
In mezzo viene rappresentata la nave di Ulisse e l’arca del sapere.
Sulla sinistra una catena che raffigura più il simbolo della trasformazione e della “dynamis”, del potere del divenire nel pieno mare dell’essere.
I colori sono a tempera, in un’aura irreale calma come di mille secoli il silenzio.
Ecco attraverso la semantica pittorica quasi come presa a prestito da Paul Klee e Kandinskj, nel 1971 Perotti ebbe il coraggio di ridisegnare i confini di una cosmogonia, senza la quale lo smarrimento dell’uomo contemporaneo sarebbe diventata cinica disperazione, maschera isterica. Se Dio è morto, tornare alle origini è necessario per ridefinire sé stessi, il mondo e il mondo delle forme.
Da questo “olos” da questo “tuttuno” da cui nascono e crescono forme, ebbe scaturigine tutta l’arte del poeta Perotti, fattosi umile all’orecchio del mondo e delle emozioni.
Dalla statica ieraticità cosmogonica di “Wlthanshaugen, Perotti passò alla giusta e generativa liquefazione degli atomi in forme di pollochiane memorie.
Eleganti e ritmate, ecco sciogliersi la visione e l’interpretazione pittorica in mille rivoli, guidate da un impulso non a disgregare o a dissociare, ma a riunire punti e linee con un’eleganza che Platone avrebbe considerato innata.
Nella linea della memoria iconica cara ai presocratici, quadri fatti di elementi, ma staccati, atomizzati, ecco scaturire dopo mille evoluzioni intorno ai temi cari all’action painting, i primi quadri della fine degli anni 90.
Profetici.
Aperti alla memoria del futuro.
Non vi è ombra di Kandinskj, né di Pollock, tammeno di Bacon o di Hopper.
Quadri aperti alle geometrie della sezione aurea, agorà solari, placide e convinte, dove il centro è un cerchio e qua e là si contorna la città virtuale, delle virtù, le Gerusalemme celesti incoronate di torri e cupole appena accennate.
Torri e cupole di paesaggi interni indimenticati, perché radici dell’eterno bisogno di ricordare per esserci.
Platone ci ricorda infatti che solo nel processo della reminiscenza c’è conoscenza.
dalle piazze asciutte, assolate come giottesche di “Agorà” (1992), si passa ad una descrizione di cupole che nascono ridenti su campi deserti, fatti più astratti da lune iridescenti, cieli trasparenti. No war. No peace.
Da un’astrazione fatta limpida e tesa dallo sguardo stesso di un pittore che guarda più dentro che fuori ecco al finire degli anni 90 una serie ininterrotta di chiese, cupole e chiese, in una quasi ossessiva visione ridondante del trapassare della storia di mille paesi.
Nascono in successione quasi vertiginosa quadri come “Onda blu”, “Intensity”, “Brume”, “Sembianze notturne”, “Vestigia del Sacro n° 66” (2005-“2010).
Ricordando a sè e al mondo che senza Dio, senza il colmo, senza il pieno c’è il vuoto. Non c’è niente.
Trascorrono una dietro l’altra visioni di un riappropriarsi di un linguaggio che non è solo religioso, ma è l’appropriarsi dei luoghi della memoria iconica di tutti i paesi.
Dopo tanta mercanzia e mercimonio di oggetti dissociati, piaccia o non piaccia, ecco il ri-costruire, il rinnovare, il testimoniare figurativamente che cupola non è solo bisogno di riempire il vuoto.
Cupola è bisogno di scaldare il cuore stesso di una tradizione come quella dell’arte italiana, unica al mondo.
Cupola è riscoprire i tesori di Bisanzio, l’amplitudo del gesto di Brunelleschi, il ricongiungersi di yin e yang, l’abbraccio universale che fa del cerchio l’ombra della divinità.
Cupola è anche bisogno di autoproteggersi e proteggere la civiltà da se stessa, in un processo che porta l’autore fin nello spazio.
In questo Perotti è unico.
Il suo gesto è sicuro e felice.
L’incanto è immediato e ci ricorda per quanto tempo abbiamo dimenticato la bellezza. Che è sacra.
La bellezza del Sacro.
Unico grande tesoro rimasto da riscoprire.
Alessandra Lancellotti
Membro International Association of art and psychology